Le prime radio libere italiane sono nate quando avevo poco meno di 11 anni, vivevo a Salerno e il massimo di radio alternativa alla RAI che ero riuscito ad ascoltare era stata Radio Tunisi, ma il segnale arrivava solo qualche volta, lontanissimo, rimbalzando tra mare e ionosfera nei giorni di bel tempo.
Dalle mie parti ha appena iniziato a trasmettere Radio Salerno Uno, gli studi sono in un appartamento in cima alla collina Seripando, da lassù l’antenna di trasmissione vede tutta la città, mia sorella Patrizia si fa arruolare come conduttrice, la scongiuro di portarmi e lì conosco Sandro Ravagnani che prima di iniziare a girare il mondo con Moira Orfei guida il programma per bambini: sono uno dei suoi primi ospiti e mesi dopo facciamo anche uno spettacolo a teatro insieme.
Aprono un’altra radio, poi un’altra, poi Radio Onda del Futuro: sarà stato settembre del ’76 quando quasi dodicenne mi presento da loro con il mio sogno e mi piazzano in co-conduzione con la direttrice Rosanna in un programma del sabato che si chiama “Cocktail e patatine”, mi tengono per tre puntate o quattro, poi mi spiegano che non è cosa (notare la traduzione letterale dal napole-salernitano): ho la voce da bambino e alla radio sembro una ragazza.
E’ il pomeriggio del 17 febbraio 1977, c’è aria di pioggia e il mare è in agitazione, sul retro della Croce Bianca in Lungomare Colombo di fronte alle giostre hanno montato una regia, in cima al palazzo c’è un’antenna altissima e da lì fanno Radio Onda Libera: “Dai, chiediamo se ci fanno entrare a vederla!” passiamo, polistirolo dappertutto sui muri, il microfono, i giradischi Thorens, il mixer della LEM, la luce fioca, l’aria irrespirabile di sigarette.
Dopo un po’ che siamo lì a guardare gli altri se ne vanno e io resto là; fuori è già buio, il tizio in regia (si chiama Ferrante, ma il nome non lo so) esce ancora per fumare, intanto il disco in onda finisce: la puntina arriva in fondo fino all’etichetta e ci gratta attorno.
Il niente rumoroso dura meno di un minuto, salto sullo sgabello prendo un disco dalla pigna a cui attingeva l’altro, lo sfilo dalla copertina lo piazzo sul giradischi sposto il braccio (so come si fa ma mi tremano le mani e il respiro accelera all’improvviso) lascio cadere la puntina malamente con il cursore ancora alzato.
Nelle casse fa un rumore di tuono, poi inizia la musica.
E’ “Dance, dance, dance” degli Chic mix by Savarese, davanti alla cabina ora c’è una piccola folla, Ivan, il corpulento proprietario della radio da dietro i Rayban azzurrati mi chiede: “Sai mettere i dischi tu?”.
Lo sento, stanno per cazziarmi, ne ho combinata un’altra delle mie, faccio cenno di sì con la testa e cerco di giustificarmi “Non c’era nessuno, adesso però ci siete voi… mi tolgo” mi guarda e mi fa “No, no se vuoi stai pure, ti siedi là sul “fattapposta”, i dischi che usi li metti qui così non trasmettiamo sempre le stesse cose” e se ne va; era già tardi quasi le otto della sera “a casa mi avranno già dato per disperso” così vado via anch’io.
Da quel giorno sono tornato ogni giorno a mettere dischi, ho iniziato a parlare al microfono col cuore impazzito che sembrava stesse per strangolarmi: “Siete sintonizzati su Radiondaliberasalerno, sui novantasetteessettecentomegahertz ineffemmestereo. Buon ascolto!” e tiravo giù di colpo il cursore tramortito d’emozione.
Tutto il mio tempo extra scolastico era là tra i dischi e i nastri, se per il weekend riuscivo ad accaparrarmi l’apertura delle sette, la sera prima prendevo le chiavi e non dormivo per tutta la notte; alle cinque eravamo già nell’unico studio, io e Mike, scollegavo il mixer per non mandare il suono al trasmettitore e registravo, musiche, stacchetti stonati, sigle da usare durante la settimana.
Il mio carbonio14 professionale arriva lì, al 17 febbraio 1977, al ragazzetto poco più che dodicenne che sono stato, catturato da questo nuovo gioco di musica, di frequenze, telefonate che è la radio.
Oggi, quarantacinque anni fa.