Io non ho mai saputo di che cosa avrei parlato mentre afferravo una pigna di dischi e mi infilavo dietro il mixer.
Poi il mixer è passato ad altri, io afferravo la pigna di dischi la consegnavo al tecnico e mi infilavo in cabina e quando mi chiedevano con quali parole avrei finito l’intervento per poter essere pronti a mandare la musica rispondevo sempre di non saperlo, ma il bello (o il peggio) è che questo è assolutamente vero.
Per qualche tempo nella radio in cui lavoro adesso ho condotto dei programmi, uno all’inizio dell’avventura nel 1999 (si chiamava “I primi e gli ultimi” e Bruno Gambarotta un giorno su la Stampa mi spezzò le gambine: “..parla l’inglese come uno che ha appena pagato il corso per impararlo”) e l’altro qualche anno dopo (Amici di famiglia).
In entrambi i casi ho resistito poco perché non riesco a farla una radio in cui ci si scrive il copione, dove sulla scaletta che si consegna in regia c’è pure scritto “Buongiorno da…” come se il conduttore stesso potesse avere crisi di memoria da non ricordare la propria stessa identità, insomma faticavo.
Penso ancora che la radio funzioni quando è spontanea, quando ci sono tre o quattro punti fermi su un canovaccio e tutto quello che occorre per imbastirli viene inventato al momento, per leggere integralmente riuscendo a essere spontanei bisogna essere bravi, bravi, bravi.